I climi della poesia
Questo poemetto nasce da una molteplice riflessione sulla grande metafora del freddo: il freddo come costruzione di un clima artificiale, di un mondo umano disumanizzato, dominato dal tutto-visibile e dal tutto-detto, dove trionfa l’omologia, la sterilità, la superficie: e, d’altra parte, il Freddo invernale e sensoriale, a sua volta metafora dell’inevitabile fine della vita terrena, exitus biologico a cui dovrebbe seguire un adeguamento psicologico e morale alla morte, come testimonia l’invocazione finale ”Vieni, Freddo” (Epilogo).
L’uomo può risolvere l’antinomia tra artificio e natura, tra gelo dell’omologia sociale e gelo della morte, solo ritrovando dentro di sé, alle diverse temperature dei contrasti emotivi, la natura e l’energia dei propri sentimenti, sentimenti da vivere fino in fondo, come una nuova iniziazione religiosa: Non soffocare il dolore, non sprecarlo/ dagli voce e il tuo corpo intero/ fino al punto dove il suo duro corno/ batte per l’ultima volta (Il dolore).
Nella prima parte del poemetto, domina un presto con fuoco: il recitativo si alterna al canto pieno, in una mescolanza incessante di ritmi. La sintassi, ipnotica e frantumata, estraniata e a volte solenne, procede per assonanze,variazioni, iterazioni, analogie; la forma metrica si adegua, nella sua molteplicità, alla forza del pathos che la detta. Le immagini non ostentano la loro carica metaforica ma alludono a un pensiero che rifiuta ogni autonomia concettuale e deriva dalle immagini come la struttura esatta del ghiaccio deriva dai capricciosi mutamenti climatici. Fondamentale è l’uso,in tutto il poemetto, dei colori puri: bianco, nero, oro e rosso, ognuno con la propria connotazione mentale e sensoriale ben precisa.
L’oggetto del poema – il freddo – può sembrare, all’inizio, il frammento di qualche architettura dimenticata o rimossa. Ma non è così. Il testo va compiendosi come struttura di quanto ci pareva solo scheggia o frammento, viaggiando verso una forma che è sempre forma futura, che non si esaurisce mai con le opere che produce ma è costantemente traversata dall’enigma del prossimo testo. ”Brucia l’osso e l’idea/ pulsando nel dolore e sul foglio vivo/ e li tramuta in opera” (La passione).
Nella seconda parte (Le nove iniziazioni del caldo e del freddo), attraverso una forma più chiusa e compatta, vengono rinominate le passioni umane ad una ad una, in poetica corrispondenza con i colori soprannominati. E’ nella limpidezza di quel fuoco temperato e fermo che è possibile saldare la coincidentia oppositorum. Per naturale necessità il tempo si fa più largo, simile a un andante con moto e la sua sintassi, meno contratta e folgorante, si distende in canto severo dai toni esortativi e sapienziali. La parola, pur restando fedele alla suggestione delle visioni, conquista una nuova pienezza e il poeta, dopo l’attraversamento, può approdare a una voce conclusiva.
La natura umana esige una temperatura né troppo calda né troppo fredda, dove il conquistato tepore (e, per analogia, il grigio della malinconia) sia la risultante naturale del conflitto vita-morte, inconscio-coscienza. La stessa struttura del poema lo suggerisce: diviso tra furore morale della denuncia e necessità poetica di ricostruzione, si avvia verso un sereno consegnarsi al proprio destino mortale. Da incubo malinconico la caducità si trasforma, grazie alla poesia, in sfida della parola alla verità del nulla. Non ci sono né ci saranno consolazioni. Non a caso Frisa cita, nell’exergo del libro e in una poesia della prima parte, due frammenti poetici di Paul Celan. L’unica immortalità possibile è accettare il dolore della mortalità con parole adeguate, capaci di rievocare in una forma transitoria – nella bellezza veloce del canto, nelle rapide seduzioni della parola -, il mistero irrisolvibile della vita umana: mancare alla vita.
“E l’ultima parola già risuoni/ in quella di qualcuno dopo di me/ Guidato da un’altra opera/ prenderà un mio verso disfatto nell’aria/ che entrerà nuovo nella forma…”.
Marco Ercolani
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